GLI ANNI SESSANTA E SETTANTA

Dalla Collezione dei Campiani
a cura di Piero Cavellini

ADRIANO ALTAMIRA, GIOVANNI ANSELMO, ART & LANGUAGE, JOHN BALDESSARRI, BILL BECKLEY, 
ALIGHIERO BOETTI, PIERPAOLO CALZOLARI, G. A. CAVELLINI, 
GIUSEPPE CHIARI, CLAUDIO COSTA, DADA, 
GINO DE DOMINICIS, KEN DAMY, ANTONIO DIAS,
ANTONIO FAGGIANO, DAN GRAHAM, FRANCO GUERZONI,
DICK HIGGINS, JANNIS KOUNELLIS, KETTY LA ROCCA,
LUIGI MAINOLFI, ELISEO MATTIACCI, FABIO MAURI, 
MARIO MERZ, HIDETOSHI NAGASAWA, NAM JUNE PAIK, MIMMO PALADINO, GINA PANE, GIULIO PAOLINI,
CLAUDIO PARMIGGIANI, GIUSEPPE PENONE, VETTOR PISANI, 
CINDY SHERMAN, DANIEL SPOERRI, ANTONIO TROTTA, 
FRANCO VACCARI, BEN VAUTIER, WOLF VOSTELL,
GILBERTO ZORIO

15 APRILE - 3 GIUGNO 2023

Leggendo il libro di Piero Cavellini “Cronache di un osservatore dell’arte” ci si imbatte in un elenco di artisti da lui conosciuti ed esposti nel corso del tempo, nelle varie gallerie cui ha dato vita e che ha diretto a partire dal 1974. Nell’ordine in cui sono nominati, vi troviamo: Parmiggiani, Vostell, Vautier, Dias, Altamira, Costa, Guerzoni, Vaccari, La Rocca, Zorio, Paladino, Penone, Calzolari, Faggiano, Anselmo. Merz, Mainolfi, Nagasawa, Morellet, Mattiacci, Arman, Beuys, Trotta, Pisani. E naturalmente GAC, Guglielmo Achille, padre di Piero, grande collezionista e artista. L’immagine che lo rappresenta meglio a mio parere, che pubblicai in un mio libro* anni fa, è quella in cui viene fotografato da Andy Warhol per un ritratto, mentre indossa un impermeabile bianco con su scritta, a mano, la storia della sua vita. Ma torniamo all’elenco da cui eravamo partiti.

Detta così, questa lista potrebbe sembrare consueta per quegli anni, forse anche leggermente disordinata. Infatti, se riuniamo questi nomi in un altro ordine, non alfabetico, ma cronologico (gli anni in cui furono presentati), viene fuori un’altra storia, quella di Cavellini gallerista, iniziata potremmo dire quasi da ragazzo, e formata pian piano esplorando un mondo dell’arte allora vitalissimo e assai complesso. Un incontro dopo l’altro, visitando gli studi, frequentando le maggiori rassegne del tempo, Piero ha costruito l’ossatura della storia che si può leggere nel suo libro. 

Ma se al contrario riuniamo i nomi di questo elenco per correnti, vediamo che gli interessi del nostro “osservatore dell’arte” sono ripartiti in modo ineccepibile fra i vari orientamenti delle Neoavanguardie nate fra gli anni 60 e 70 del Novecento, l’epoca in cui questa vicenda ha inizio.

Vostell, Vautier, Nam June Paik, cui potremmo aggiungere anche Chiari, e per certi versi Beuys, rappresentano infatti Fluxus, il primo movimento veramente internazionale, ancor oggi non ben conosciuto dai più, che in certo senso funse da rompighiaccio per le Neoavanguardie, iniziando quel clima di ribellione alle regole dell’arte fino ad allora circolanti, così da recuperare l’irriverenza e l’irrisione degli antenati Dada. E ancora il Nouveau Réalisme, con Arman, che in parte almeno si era abbeverato alla stessa fonte. 

Non va dimenticato un rappresentante illustre di quelle Nouvelles Tendences che ebbero il loro momento d’oro negli anni ’60 e   ’70, Francois Morellet, che costituivano l’orientamento antagonista delle correnti più sopra citate.

Poi l’Arte Povera, qui rappresentata da Zorio, Penone, Calzolari, Anselmo, Merz e Paolini (sostanzialmente l’intero gruppo, tranne Kounellis e Fabro).

Fra gli altri, troviamo poi due dei quattro artisti del breve ma luminoso “Miracolo a Milano”, ovvero Nagasawa e Trotta. E con Paladino, almeno uno fra i maggiori artisti della Transavanguardia. 

Andando avanti troviamo una numerosa selezione di quegli artisti che, senza seguire nessuna corrente in particolare, sono stati attivi nel campo della fotografia di ricerca (nelle varie forme che questa ha assunto nell’ultimo mezzo secolo), oltre che della performance, della videoarte, dell’installazione e delle varie accezioni che ha preso la scultura non tradizionale in questo stesso periodo. In questa parte dell’elenco troviamo Parmiggiani, Dias, Altamira, Costa, Guerzoni, Vaccari, La Rocca, Faggiano, Mainolfi, Mattiacci e Pisani. Fra questi artisti si potrebbero distinguere vari sottogruppi: ad esempio gli emiliani (Parmiggiani, Guerzoni, Vaccari); quelli che provenivano dalla poesia visiva ma hanno poi presto evoluto una ricerca personale assai diversa, come Vaccari e Ketty la Rocca; poi gli artisti che orbitavano nell’area romana, come Mattiacci e Pisani. 

Aggiungo queste piccole notazioni per far notare come dietro a questo elenco di nomi non sia solo presente una lucida scelta di artisti allora spesso giovanissimi (che sono poi quelli che si trovano ora citati in tanti saggi e cataloghi sul periodo artistico fine ‘900/primi anni 2000), ma una vicenda di incontri, di viaggi, di conoscenze e scelte fatte sul campo, di intuizioni che alla fine finirono per coincidere con quelle delle storie ufficiali, sottolineando la felicità di queste stesse scelte e intuizioni.

Altri nomi possono essere aggiunti, considerando le presentazioni di artisti in mostre collettive, ed alcune altre personali. Queste nuove presenze spaziano fra la fotografia vicino al Concettualismo (pensiamo a Dan Graham e Baldessari), alla Narrative Art (Bill Beckley), alla Body Art (Gina Pane) fino a giungere a quel tipo di fotografia, più recente, in cui i confini tra reportage, performance, staged photography, si confondono dando luogo ad un linguaggio ambiguo e sorprendente (Nan Goldin, Araki, Serrano, Sherman e Morimura). Né si può dimenticare la presenza di un fotografo creativo bresciano, Ken Damy, che della storia di Piero Cavellini, delle sue mostre e dei suoi artisti, è stato negli anni il più fedele cronista.

Se da questa lista di nomi vien fuori, come abbiamo visto, l’ossatura di una storia, un profilo intellettuale e un taglio storico convincente della storia dell’arte degli ultimi cinquant’anni, possiamo anche spingerci più in là, osservando come anche una imponente collezione bresciana, quella dei Campiani, abbia colto dei suggerimenti da questa storia fino a raccogliere i materiali che possono costituire l’ossatura di una mostra capace di arricchire il panorama di Brescia Capitale della Cultura 2023. Infatti il compito di celebrazioni come questa dovrebbe essere non solo quello di ricordare, ma di porre nuovamente sotto gli occhi di tutti il miracolo dell’arte, che è appunto quello di vivere nuovamente nello sguardo, di ricrearsi e rinascere sotto gli occhi del pubblico che, non dimentichiamo l’età, magari queste cose non le ha mai viste.

Il fatto che la storia della Galleria Nuovi Strumenti (e lo dico come a comprendere sotto questo nome le varie sedi in cui questa vicenda è nata e si è svolta), così come la raccolta dei Campiani, siano nate negli anni ’70 (benché poi li abbiano lasciati alle spalle per saggiarne il seguito fino agli anni più vicini a noi) è a mio avviso significativa perché sottintende un modo di sentire l’arte oggi non molto praticato –per non dire dimenticato- a cui sarebbe importante ritornare non solo per celebrare l’ennesimo Revival, ma per farne rivivere il significato più autentico, col quale i tempi attuali, sensazionalistici quanto distratti, e spesso non troppo profondi, avrebbero assoluto bisogno di confrontarsi nuovamente.

L’arte degli anni ’70, oltre a creare una importante cesura rispetto al passato, più importante e cruciale a mio avviso di quella operata dalla Transavanguardia e dai vari movimenti Neoespressionisti degli anni ’80, selezionò e reintrodusse una serie di tecniche e di procedimenti narrativi provenienti dalle Avanguardie Storiche (dai prelievi, all’uso fotografia al posto della pittura; al cinema d’artista, poi sostituito dalla video-arte; all’uso di materiali estranei alla tradizione delle Belle Arti, fino all’installazione e alla performance) che venivano a costituire l’ossatura di un nuovo linguaggio, giudicato inizialmente ostico, se non urtante dal pubblico, ma che poi, per il seguito, ha dimostrato di aver colto nel segno quanto a evoluzione della comunicazione. Quello che qualcuno giudicò allora incomprensibile e persino fastidioso, si è dimostrato col tempo essere un rinnovamento linguistico paragonabile a quello rivoluzionario degli inizi del ‘900. 

Tanto per fare un esempio, Mentre Picasso faceva lingua, inaugurando un nuovo modo di intendere la pittura che all’epoca, bene o male, non lasciò nessun artista indifferente, Gleizes e Metziger scrivevano le regole di un Cubismo che non avevano inventato loro ed era già avanti mille anni luce rispetto alla loro opera. Da una parte appunto il fare linguaggio senza fare attenzione a chi si pestavano i piedi, dall’altra il tentativo di rientrare in un solco giustificatorio già tracciato, e anzi già leggermente annacquato, con la pretesa di fare del nuovo.

Molto spesso il nuovo sembra rompere un equilibrio in modo iconoclasta, ma trova al contrario il modo di ridare forza alla tradizione che ci sta dietro.

A volte il linguaggio nuovo può apparire, a chi cerca di decifrarlo per la prima volta, come carente o troppo povero rispetto a quello nel cui alveo si sono formati: in realtà si tratta di una semplificazione dei modi di comunicare i contenuti –un esempio per tutti, la fotografia al posto della pittura- in vista di una allusività immediata dell’opera, cioè di un accorciare i tempi (di comunicazione e comprensione) in accordo con la velocità dell’epoca che stiamo vivendo.

Per fare ancora un esempio storico, quando anni fa vidi una mostra sui papiers collés di Braque al centro Pompidou, ricordo di aver trovato in quelle opere una idea di freschezza ed un’attualità che non trovavo spesso neppure nelle opere della mia epoca –eravamo negli anni ’80. Quando Braque, o Picasso, per dire “giornale” ritagliavano un pezzo dello stesso (si trattava quasi sempre de Le Journal, e non a caso il nome era la cosa) e con due tre segni di carboncino evocavano il tavolo o un vaso sul tavolo, facevano un’operazione di esperienza dell’osservazione e della rappresentazione di una concisione e di una maestria suprema.

In questo senso, quello che è stato spesso scambiato nelle correnti degli anni ‘70 per un oscuro ricorso ad un intellettualismo di difficile comprensione, non era che un ritorno (con nuovi mezzi) a alla simbologia spesso oscura di tanta pittura rinascimentale o post-rinascimentale che il pubblico dice di amare poiché si tratta di “bella” pittura, ma di cui in realtà, a parte pochi casi, non capisce i contenuti -che necessitano di un minimo di studio- così come non li capisce nell’arte del ‘900.

Senza contare che leggere l’arte non vuole quasi mai dire sforzarsi di capire, come se esistesse una formula per capire l’arte, ma lasciarsi andare, abbandonarsi al suo gioco.

 Solo chi si lascia andare al richiamo dell’artista riesce ad entrare in assonanza e a sentire quello che lui stesso ha sentito prima di noi.

Uno dei temi (di lontana origine romantica) che ancora dominano il panorama dell’arte contemporanea è quello dell’Energia. Il fatto stesso che anche le cronache di ogni giorno ne facciano un tema centrale che investe molti aspetti della nostra vita, la dice lunga sul fatto che gli artisti abbiano individuato prima dei tecnici della materia l’importanza espressiva di questo tema -pensiamo solo al grande non-finito di Pasolini, “Petrolio”. Naturalmente la metafora artistica dell’Energia non riguarda tanto gli aspetti utilitaristici del problema, quanto l’Energia dell’arte, vista come un prolungamento dell’azione creatrice dell’artista, in una sorta di impossibile lotta con l’Energia della Natura.

Già dal periodo delle Avanguardie Storiche la metafora energetica guidava movimenti come il Futurismo, Dada e Surrealismo; e in seguito in gran parte dell’Astrazione, nell’Informale (dove, per esempio l’Energia si faceva gesto, improvvisazione e persino spettacolo). Poi riapparirà nuovamente in Fluxus, nell’Arte Processuale e Povera: pensiamo solo –tornando alle mostre organizzate da Piero Cavellini, al pane e ai chiodi e all’enorme automobile di Vostell, che ci ricordano non a caso i metalli e i materiali organici di Kounellis, le scritte (come mere intenzioni che si fanno realtà) di Ben Vautier e di Chiari, la serie di Fibonacci nelle opere di Merz, i laser e le rudimentali “pile” di Zorio, tanto per citare qualche esempio –ma è ovvio che potrebbero essere molti di più.

In opere come quelle cui facevamo riferimento, sono attivi contemporaneamente i modi di enucleazione del tema, così come l’accorciamento dei tempi di comunicazione, visto che riesce a riassumere una tematica così complessa con poche corpose presenze di oggetti dal valore metaforico. 

Nel 1989 visitai a Parigi la mostra Les magiciens de la Terre, che fu non solo la prima mostra che cercava di dare un quadro della situazione artistica globale, ma anche la prima mostra che non si peritava di accostare le star dell’occidente del mondo, con gli artisti emergenti del continente africano o dell’estremo oriente, e persino con gli umili rappresentanti di culture che di solito vengono ricordate come interessanti solo da un punto di vista antropologico o etnografico. Quello che mi colpì molto fu il fatto che a tutti gli artisti, senza distinzioni, venisse poi chiesto “cos’è per te l’arte?”, e soprattutto l’enorme differenza tra le risposte degli artisti delle nazioni più industrializzate, rispetto a quelli delle culture tradizionali o aborigene.

Infatti, mentre la maggioranza dei nostri artisti rispondevano senza tanti giri di parole equiparando l’Arte all’Energia, gli artisti aborigeni rispondevano che l’arte derivava da quello che si vive nel sogno, ed anche a quello che succede quando si fa l’amore! Altri si limitavano a descrivere i gesti che facevano nella costruzione dei loro manufatti. La loro risposta tutta emozionale era decisamente spiazzante per noi, che vediamo L’Energia come la vedeva Goethe, cioè come competizione fra la forza creatrice dell’artista in lotta impari con quella della Natura, piuttosto che come figlia dell’Energia del mondo Moderno (come i Futuristi), mentre alcuni addirittura la vedono in un modo che fa pensare allo slogan di “Guerre stellari”, cioè: “che la Forza sia con te!”

Nell’arte europea degli anni ’70 e  ’80 c’è un po’ di tutto questo, ma è singolare che in alcuni artisti (soprattutto italiani) ci sia anche il sogno di far rivivere lo spirito umanistico del Rinascimento, compreso anche il suo esoterismo -che ritroviamo di solito solo in artisti dalla cultura molto sofisticata -come Parmiggiani, Fabro o Pisani, tanto per fare qualche nome.

In molti altri casi è la pertinenza con cui sono stati scelti e utilizzati i mezzi linguistici da loro adoperati a costituire motivo di interesse guardando queste opere.

Le scelte di Cavellini, così come quelle collezionistiche della raccolta dei Campiani,  ci  suggeriscono un itinerario stimolante tra molti dei fatti salienti che hanno caratterizzato gli ultimi 30 anni del ‘900 e i primi anni 2000. I più giovani visitatori di questa mostra potranno gettare così uno sguardo sull’altro ieri, che magari non conoscono o non hanno potuto incontrare così da vicino. Mentre il pubblico bresciano in genere potrà constatare come la loro città sia già stata per molti anni una capitale della cultura italiana, prima ancora di essere stata decretata tale in occasione delle celebrazioni del 2023.

Adriano Altamira